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Thursday, March 19, 2009

Tutte le ombre sulla crisi

La crisi finanziaria a cui stiamo assistendo con stupore e con crescente apprensione da qualche mese a questa parte era annunciata da diversi segnali (inascoltati) di cedimento e di tracollo ha reso evidente le inadeguate modalità di regolazione dei mercati che si sono dimostrate inefficaci nonché bisognevoli di profonde riforme. Capire quali sono le sue conseguenze ed elaborare un modello di mercato maggiormente regolato che estirpi alla radice i fenomeni sott’accusa della finanza moderna è un processo complesso. Per affrontare un tema così delicato e sviluppare alcuni punti critici di queste dinamiche ci siamo fatti aiutare da un esperto, Andrea Di Stefano, direttore del mensile di economia e finanza etica "Valori", redattore di “Affari e Finanza” e collaboratore di Radio Popolare come interlocutore nelle materie economiche.

La maggior parte dei media, occupandosi della crisi finanziaria, ha focalizzato la propria attenzione sulla bancarotta di grandi banche, su bilanci in perdita e su licenziamenti eccellenti. In pochi, invece, si sono chiesti chi ci ha perso veramente e quali categorie, all’interno della società, pagheranno il prezzo più alto di questa pesantissima crisi.

A pagare saranno innanzitutto i contribuenti americani dato che, per come si sta prospettando il piano di salvataggio, sarà un’operazione a carico delle finanze pubbliche con un incremento del debito americano e un costo complessivo che è stato stimato attorno ai 2.800 dollari per ciascun cittadino statunitense.
Restando negli Stati Uniti bisogna inoltre considerare alcuni milioni di persone (si parla di 5 milioni con margini in aumento) che erano cadute nell’offerta volutamente sbagliata e fuorviante dal punto di vista informativo della facilità del mutuo e che adesso hanno perso la speranze di avere una casa di proprietà.
Pagano i lavoratori perché questa crisi provoca la perdita di posti di lavoro a partire dal settore della finanza: a parte i grandi manager e i grandi broker si calcola un mezzo milione di posti persi nell’industria finanziaria a livello globale.
Accanto a questo numero, tuttavia, si potrebbero aggiungere le conseguenze di una dinamica difficilmente controllabile e che potrebbe coinvolgere le grandi industrie automobilistiche per tutte le modalità di vendita che hanno adottato negli ultimi 15 anni con un forte profilo finanziario, nonché il settore delle carte di credito che, come è noto, è considerato uno di quelli più a rischio.
Oltre a questi che sono i soggetti più direttamente colpiti non bisogna dimenticare gli effetti indotti della crisi e il meccanismo recessivo da essa innescato (che di per se non trova radici in particolari ragioni strutturali tali da determinare degli effetti così dirompenti): perdita di posti di lavoro ulteriori, un tasso di disoccupazione che negli Stati Uniti è al picco e un contagio della crisi verso una parte dell'Europa. Sicuramente l’Inghilterra che è l’altra faccia della medaglia del modello e dell’industria finanziaria anglosassone e che è stata oggi detronizzata dopo i successi del boom iniziato con la deregulation di fine anni ’80 caratterizzata dal proliferare incontrollato di prodotti finanziari, spesso così astrusi, complessi e ingegnerizzati da risultare incomprensibili agli stessi operatori di finanza. Non bisogna poi dimenticare la Spagna, che più di altri aveva sposato il modello di crescita basato sul boom immobiliare: forse lo stesso sorpasso sull’Italia di cui molto si è parlato negli ultimi mesi non è altro che una bolla che sgonfiandosi rischia di fare grossi danni per l’economia
Brutte sorprese si preannunciano, in prospettiva, per il sistema dei fondi pensione: essendo stata trasferita una consistente quota di risparmio dei singoli dalle pensioni pubbliche a quelle private con l’obbiettivo di destinarle ai mercati finanziari, se questi crollano in molti portafogli di fondi pensionistici si registreranno perdite considerevoli.

A fronte di una crisi così ingente quali sono stati gli interventi messi in atto dai governi e dalle banche centrali? Sono adeguati?

Quasi tutti sostengono che probabilmente non c’era alternativa al piano messo a punto da Paulson per il salvataggio. Questa però è una falsa risposta: dalla crisi dei sub-prime a oggi sono infatti passati 13 mesi ed era evidente da subito che i “5 dei di Wall Street” fossero in difficoltà. Emerge in questo lasso di tempo la mancanza del ruolo del regolatore: come sempre accade in finanza rapidità, chiarezza e incisività degli interventi sono fondamentali. Trascinare la crisi per 13 mesi è stata una pessima scelta, gli interventi fatti finora non sono stati incisivi, sono stati tutti provvedimenti-tampone. Gli unici interventi reali li ha fatti la BCE quando ha alzato al 12% lo sconto sui prodotti più esposti obbligando il sistema ad alzare i livelli di protezione e di garanzia.
Le dimensioni della crisi sono talmente rilevanti e il buco di bilancio così notevole che nemmeno l’opzione di uscire dalla crisi con il solito conflitto sembra percorribile: sembra piuttosto delinearsi come un evento epocale che ridistribuisce le logiche di potere sottraendo definitivamente agli Stati Uniti l’egemonia sul mercato finanziario.

Alla luce degli errori compiuti finora e in prospettiva futura quali sarebbero delle strategie più idonee ad evitare crisi di questo tenore?

Guardando al passato, alle prime avvisaglie della crisi si sarebbe dovuta costituire un’autorità internazionale e sovranazionale di regolazione dei mercati con poteri di regolazione, obblighi di trasparenza molto forti e con la possibilità di mettere a punto piani di intervento per riportare progressivamente sotto controllo i mercati non controllati.
Per esempio sui mercati OTC (over the counter), che non si possono bloccare improvvisamente poiché le dimensioni di quei mercati sono ormai enormi, si poteva ipotizzare l'istituzione di uno staff di emergenza che nell'arco di qualche mese avrebbe dettato nuove regole di trasparenza sul mercato degli OTC e lo stesso vale per quello dei derivati o delle opzioni.
Altri interventi come quello di pochi giorni fa della SEC che stabilisce dall’oggi al domani il divieto di short selling per 4 mesi su più di 450 titoli di Wall Street suonano incoerenti con il permissivismo in tema di short selling e di hedge fund, strumenti da anni oggetto di critiche mai accolte. Un intervento concertato di banche centrali e delle autorità di regolazione che coordinino una strategia di intervento per riportare sotto controllo i mercati entrati in crisi sembra pertanto più auspicabile.
Dal punto di vista politico e in prospettiva futura si possono rivendicare alcune misure per combattere la speculazione: gli evidenti rincari sulle commodities dimostrano come sia indispensabile stroncare parte della speculazione sui mercati delle opzioni sulle materie prime. Se prendiamo il petrolio, ad esempio, non ci sono ragioni oggettive di mercato che determinano fluttuazioni così accentuate del prezzo al barile: uno strumento efficace verso questi comportamenti è sicuramente la leva fiscale, non tanto per ottenere risorse aggiuntive quanto per portare in evidenza e in trasparenza il comportamento degli operatori e le dimensioni reali delle speculazioni.
Si potrebbe poi operare nel senso di maggior trasparenza, non per vietare ma per imporre la dichiarazione di alcune operazioni sul mercato, come potrebbe essere l’obbligo per gli OTC di rendere meno oscuri i termini dei contratti dal momento che nemmeno gli organi internazionali sanno cosa avvenga in questi tipi di mercati. Ancora, l’obbligo di avere informazioni sulla solidità della controparte e l’innalzamento dei limiti di garanzia
Da ultimo, considerando il mercato dei derivati e delle opzioni, non è tanto da condannare la sua funzione che di per sé non è malata ed anzi ha una sua logica. Il problema si pone quando quest’ultima viene abbandonata e l’unica filosofia è fare prodotti solo per creare movimentazioni finanziarie e una ulteriore voce di guadagni per chi opera in quel settore. Anche in questo caso sarebbero auspicabile un innalzamento dei limiti di garanzia per gli operatori in funzione del capitale versato.

Giandomenico Potestio

Il cantuccio dello Stato

Gli uomini non prevedono il futuro (e men che meno gli economisti)
La crisi tanto temuta è arrivata, e nessuno sa bene quando finirà. Stanno accadendo cose impensabili: uno dopo l’altro si sfornano piani strutturali di intervento pubblico nell’economia americana. Parliamo del tesoro USA, non del Politburo sovietico! Siamo ad una svolta epocale?
Tanto per cominciare, questa non sarà né la prima né l’ultima crisi del sistema capitalista. Il nostro attuale sistema economico non è certo perfetto; ma funziona incredibilmente meglio di ogni alternativa (Feudalesimo? Collettivismo?). La storia ci indica che lo sviluppo economico negli ultimi due secoli è stato prodigioso in termini assoluti. Il PIL pro capite mondiale era,nel 1998, l’850 % di quello del 1820; dal mitico anno Mille al 1820, il Pil mondiale era cresciuto solo del 50%. Il guaio del capitalismo è che comporta, durante il suo sviluppo, “strappi”: arricchimento vorticoso di alcuni e impoverimento di altri, battute d’arresto o fughe in avanti, espansioni a macchia di leopardo. Periodicamente, attraversa crisi drammatiche. Perché? Beh, nessuno lo sa con precisione. Alla base di tutto, c’è il fatto che gli uomini non sono macchine: sbagliano, soprattutto a prevedere il futuro (interessante Luca 12,16-21). Magari le scelte sbagliate sono inconsapevoli: si investe in settori che sembrano offrire ottime possibilità di profitto (immobiliare? finanziario?), sicuri di poterne uscire un istante prima che la bolla scoppi. Alcuni lo fanno di proposito, sapendo benissimo i rischi che corrono; e sono affari loro. Altri lo fanno senza capirlo, o senza volerlo (Argentina, Parmalat, Lehman Brothers vi dicono qualcosa..?). Una parte di questi errori è fisiologica: in ogni attività imprenditoriale c’è un margine di rischio a fronte di un possibile profitto. Se l’economia cresce molto, si “surriscalda”: è naturale che abbia crisi congiunturali, dalle quali escono le imprese più innovative. Magari, si tratta di settori che vengono giustamente ridimensionati. Altri errori, al contrario, sono evitabili. Come? Ritiriamo lo Stato fuori dal cantuccio in cui l’avevamo spedito frettolosamente! Lo Stato ha tre compiti cruciali. Prima di tutto, dare regole ai mercati (e sincerarsi che qualcuno le rispetti): tra le altre cose, assicurare la trasparenza e diminuire le asimmetrie informative, limitando i meccanismi speculativi di cui parlavamo un attimo fa. Ovviamente, chi regola deve essere il più indipendente possibile da chi è regolato. Secondo, deve fornire una quantità di moneta che sia adeguata alla congiuntura economica, facendo attenzione all’eccesso di investimenti (e all’inflazione, ma è un’altra storia). Terzo, deve predisporre quegli ammortizzatori sociali che permettano alle categorie sociali colpite dalla crisi di non sprofondare. Attenzione: significa erogare un sussidio di disoccupazione, non mantenere con denaro pubblico un’azienda inefficiente per salvare i posti di lavoro. E significa dare a tutti i meritevoli la possibilità di emergere: le classi dirigenti ingessate e chiuse, sicure di mantenere per sempre il loro status, saranno probabilmente mediocri. A ben vedere, alla base della crisi attuale ci sono mancanze proprio in queste direzioni: la debolezza delle autorità di vigilanza e le connivenze tra politica e sistema finanziario hanno reso intoccabile l'esplosivo sistema delle garanzie pubbliche agli istituti erogatori di mutui; l'espansione monetaria esuberante dell'era di Alan Greenspan alla FED; i timori per l’impatto dei crack su una società con ammortizzatori sociali abbastanza deboli. Lo stato allora può intervenire, magari anche nazionalizzando banche o assicurazioni; l’importante è che non si metta a fare l’imprenditore in pianta stabile. Lo stato non deve mettersi a produrre panettoni o pomodori, come in Italia ai tempi dell’IRI; gli effetti sulle finanze pubbliche sono stati quasi sempre deleteri. Deve regolare i mercati, con una speciale attenzione per i fattori produttivi: lavoro e capitale (il mercato del capitale, per inciso, è la finanza: e può diventare cattivissimo…se non regolato). Non deve recitare, ma preparare la rappresentazione: abbandonando gli attori al lancio delle uova, oppure all’applauso più fragoroso.

Alberto Ricci
alberto.ricci@studbocconi.it

Crisi della Razionalità Speculativa, L'autunno della Finanza

“Dall'inganno superficiale l'uomo passa all'inganno interiore. Ad ogni nuova crisi, però, diviene sempre più intensamente conscio di un mutamento che non è un mutamento, ma piuttosto l'intensificazione di qualcosa profondamente celato dentro di lui.”
In queste parole del romanziere statunitense Henry Miller va ricercato il senso della crisi: essa è qualcosa di profondamente connaturato all'essere umano. Infatti, il nostro essere comincia soltanto nel punto in cui l'esistenza stessa vine posta in pericolo; nel momento in cui si delinea la crisi. Per meglio chiarire questo concetto, cercherò di mostrare il ruolo della crisi in un ambito che tutti conosciamo intimamente, per poi passare all'ambito economico.
Nel momento in cui diciamo “io sono”, ci affermiamo nell'essere in quanto discontinuità rispetto ad esso. Ciascuno di noi è perché ha coscienza di sé; può, cioè, distinguere se stesso da tutto il resto, da tutto ciò che è altro. La parola, il logos, ci permette di affermare questa distinzione; ci permette di uscire da un'indistinta continuità contrapponendosi ad essa. La ragione emerge dalla non-ragione, la razionalità dall'irrazionale. La razionalità contraddistingue dunque l'essere umano. Ma l'uomo non è solo ragione: egli ama, si appassiona, si commuove. Queste componenti dell'uomo non sono semplicemente irrazionali, al pari delle pulsioni animali, poiché esse tendono alla non-razionalità partendo dalla ragione; potremmo dire che vanno oltre la ragione, che la oltrepassano. L'essere umano è quindi un essere eterogeneo, dotato di una componente razionale e di un'altra oltre-razionale. Ma cosa accade se l'uomo dimentica la sua natura eterogenea, credendo di essere pura razionalità? Questa dimenticanza vige in una certa interpretazione delle parole di Cartesio e nelle correnti che su questa si fondano. “Cogito ergo sum”: se essere è cogitare, cosa ne è di tutto ciò che è oltre il pensiero, nonché della sua stessa origine? La ragione, in sé, è mero calcolo. Essa ha senso solo se orientata ad un fine che la trascende e che si trova nell'eterogeneità dell'essenza umana. L'uomo usa la ragione per agire sul mondo, con il fine di realizzarsi, di realizzare il proprio essere. Nel momento in cui si chiude su se stessa, senza guardare al fine trascendente a cui tende l'uomo, la ragione diventa sterile.
E' qui, quando la natura dell'uomo viene obliata, che entra in gioco la crisi. La crisi è crisi della ragione; essa pone davanti alla razionalità il vuoto di senso. La crisi è la violenza di un inevitabile ritorno all'origine e, per questo, spaventa ma al contempo attrae. Come un buco nero attira a se, per distruggerla, la struttura razionale che, dimenticando le sue fondamenta, si era ridotta a pura speculazione.
Parallelamente, in ambito economico, possiamo parlare del passaggio dal ciclo merce-denaro-merce [M-D-M] alla logica denaro-merce-denaro [D-M-D']. Nel caso M-D-M la moneta e la merce si trovano su due piani distinti. La moneta è la misura che mantiene in equilibrio lo scambio. Il mercante usa la moneta per scambiare, ma il suo fine non è lo scambio in sé. Il fine di questo tipo di scambio è il consumo, consumo volto a soddisfare la duplice natura dell'uomo: produzione di cibo per mangiare, costruzione di chiese per pregare e di stadi per giocare, di biblioteche per studiare e di infrastrutture per comunicare, di teatri per recitare e così via. L'accumulazione è un mezzo per accedere alla libera funzione del consumo, sia produttivo che, in ultima istanza, improduttivo.
Nella logica D-M-D' la moneta perde la sua natura trascendente e diviene una merce fra le merci. Nella logica capitalistica il denaro viene utilizzato per acquistare delle merci le quali, dopo essere state organizzate, combinate, trasformate e rivendute devono portare ad una quantità di denaro maggiore di quella iniziale (D'>D). A questo punto il ciclo non può che ricominciare da capo: la merce/denaro D' verrà scambiata per poter arrivare ad un D''>D' e così via, in un ciclo senza fine. Si potrebbe obiettare che non tutti i profitti devono essere necessariamente reinvestiti; parte di essi potrebbe essere liberamente consumato, nel senso inteso sopra. Così effettivamente accade quando non vale la disequazione D'>D in modo sistematico. Se, tuttavia, essa vale sistematicamente, ciò significa che il consumo non è libero ma, piuttosto, ancorato ad una logica che vuole la continua accumulazione attraverso la perdurante implementazione di se stessa. Ancora una volta, la logica dimentica la sua origine e perde il senso divenendo sterile; diviene finanza puramente speculativa.
Qui inizia quello che lo storico Fernand Braudel chiama “l'autunno della finanza”. Autunno perché si affaccia sul baratro del gelido buco nero che è la crisi. La struttura speculativa finanziaria mostra la sua estrema fragilità di fronte al vuoto di senso della crisi, e viene polverizzata in un istante dalla violenza che la riconduce nel profondo nulla da cui è sorta.
Da questa breve riflessione possiamo trarre alcune semplici conclusioni. Innanzi tutto, la crisi è l'effetto di un movimento di ritorno all'origine. Fa parte della natura dell'essere, dell'uomo. Tuttavia, essa si manifesta solo nel momento in cui viene persa la misura, nel momento di smarrimento esistenziale. Se questa misura viene mantenuta e, con essa, anche la consapevolezza della natura eterogenea dell'essere, è possibile mantenere un equilibrio stabile. Il movimento di ritorno all'origine viene, in questo caso, istituzionalizzato e può svolgersi all'interno del ciclo naturale di nascita-vita-morte, senza crisi ne vuoti di senso. Ma cosa significa, concretamente, il mantenimento di questo equilibrio?
Sul piano della nostra esperienza interiore significa non oblio dell'eterogeneità, quindi consapevolezza della duplice natura dell'uomo, razionale e trascendente. Sul piano economico, significa salvaguardia delle istituzioni che hanno il compito di mantenere stabile la moneta, riconoscendole il ruolo di misura trascendente, e di regolare lo scambio. Sul piano politico, significa attenzione alle dinamiche di formazione dell'opinione pubblica e controllo, da parte di questa, sulle istituzioni cardine della democrazia.
Sul piano culturale che, a mio avviso, è quello da cui derivano anche le tre dimensioni precedenti, mantenere l'equilibrio significa controllo vigile delle istituzioni di produzione, riproduzione e distribuzione simbolica del sapere.

Dario Pagnoni
d.pagnoni@hotmail.com

Crisis for dummies - breviario della crisi

“Crisis For Dummies”
breviario della crisi, intervista a Fausto Panunzi


Fausto Panunzi: Ha conseguito il PhD presso il Massachusetts Institute of Technology. Attualmente insegna Economia Politica presso l'Università Bocconi. In precedenza ha insegnato presso l'Università di Bologna, l'Università di Pavia, Lecturer all´University College London, Research Fellow presso IDEI (Toulouse ) e IGIER. Le sue aree di interesse scientifico sono la Teoria dell'impresa, finanza d'impresa e Teoria dei contratti. E’ redattore de “ la voce.info” (www.lavoce.info).

Milano 30 settembre

Qual è la definizione di crisi finanziaria?
Non ce n’è una univoca. In genere una crisi avviene quando un buon numero d’istituti finanziari (banche commerciali o d’investimenti) subiscono gravi perdite, uno shock sull’attivo. Nel nostro caso le perdite sui mutui immobiliari. A questo punto entra in gioco un’altra caratteristica essenziale delle banche: esse funzionano con poco capitale proprio e un elevato indebitamento a breve. Anche perdite limitate quindi possono renderle insolventi. Per ripagare il debito, gli istituti si troveranno di fronte a due strade: ricapitalizzarsi o vendere i propri asset. Ma la mancanza di fiducia e l’affollamento degli asset sul mercato possono rendere impossibile percorrere queste due strade, portando verso il fallimento. Il fallimento di una banca di per sé non è un problema, ma quando lo shock investe gran parte del sistema bancario, come è accaduto in queste settimane, siamo di fronte ad una vera e propria crisi finanziaria.

Breve cronaca della crisi
Prologo: marzo 2008 Bear Stearns, (una delle cinque investment bank americane: Lehman Brothers, Merrill Linch, Goldman Sachs, Morgan Stanley), viene salvata dalla Federal Reserve e Jp Morgan. Primo segnale d’allarme. Passano sei mesi di calma apparente fino a che la bolla finanziaria crolla seminando il panico nei mercati. Il 7 settembre Fannie Mae e Freddie Mac (enti semipubblici che garantivano liquidità al mercato dei mutui cartolarizzati) vengono nazionalizzati e rifinanziati. Ma la diga scricchiola. Aumenta il panico sui mercati. Tra il 13 e il 14 settembre Lehman Brothers viene fatta fallire e Merrill Linch viene sposata a Bank Of America. Il 16 il colosso delle assicurazioni AIG (grosso quanto Generali, Allianz e Axa messe insieme) viene salvato da un ponte prestito del Tesoro di 85 Miliardi. E’ chiaro che non basta più tappare i buchi: bisogna rifare la diga.
Il 19 settembre viene annunciato il piano Paulson: 700 miliardi di dollari dai contribuenti per ripulire il mercato dai prodotti tossici. Euforia sui mercati. Ma il 29 settembre il Congresso ( che è in scadenza di mandato e si prepara all’appuntamento elettorale di novembre) boccia il piano Paulson. Si attendono novità nei prossimi giorni.

Quali sono i motivi ( o le colpe) che hanno portato alla crisi?
Il motivo principale è la cosiddetta bolla immobiliare, che attraverso il meccanismo dei subprime (mutui ad alto rischio a platee molto vaste, aventi per garanzia il valore delle case) e della cartolarizzazione (l’immissione di tali mutui nel mercato finanziario) ha riempito il mercato dei derivati di prodotti “tossici”. La combinazione dell’aumento dei tassi di interesse e quindi delle rate dei mutui e la crisi del mercato immobiliare ha portato al default i mutui più rischiosi, facendo crollare anche il valore dei prodotti che era basati su di essi.
Ci sono alcune responsabilità, ad esempio la politica di Bush e del Congresso sulla casa, che ha spinto le banche a concedere mutui sempre più rischiosi. Altro elemento da tenere in considerazione è stato l’incredibile complessità dei nuovi prodotti finanziari, che ha intricato notevolmente la vicenda. La SEC ha ammesso di avere avuto un approccio basato in modo eccessivo sull’autoregolamentazione di banche e società finanziarie.
In questo giorni la crisi viene spesso attribuita alla “cupidigia” dei banchieri. E’ una tentazione a cui è difficile resistere, ma che non credo colga uno dei punti cruciale. I banchieri hanno semplicemente risposto al loro sistema di incentivi. Forse tali sistemi di incentivazione premiano in modo eccessivo la performance di breve periodo, ma questo è un problema che veniva già sottolineato negli anni ’80. Il problema degli incentivi dei CEO è certamente cruciale, ma è di non facile soluzione.

Come giudica le misure di risposta alla crisi?
Non si può giudicare qualcosa che è ancora in via di definizione. Il progetto Paulson, appena rigettato dal Congresso aveva molti difetti. Chiedeva 700 miliardi di dollari per comprare i toxic asset della banche dando carta bianca al Tesoro americano sul come spenderli e impedendo persino una review dell’operato del Tesoro stesso. Troppo per dei deputati in campagna elettorale! Ci sono altre proposte avanzate dal membri del Congresso o da accademici (che la Fed compri azioni piuttosto che prodotti, o che le obbligazioni siano convertite in azioni) ma giovedì 2 ottobre dovremmo scoprire il nuovo compromesso.
Bisogna ammettere che quanto meno le autorità USA si sono rivelate tempestive nel proporre e riproporre soluzioni. Se la crisi si spostasse in EU, saremmo altrettanto pronti? Chi giocherebbe il ruolo che ha avuto il Tesoro americano? Abbiamo visto che i primi interventi di salvataggio, come nel caso di Fortis, sono stati lasciati ai singoli Stati. Il rischio d’arrivare impreparati all’appuntamento è grande.

Che cosa cambierà in peggio?
Inevitabilmente la crisi di Wall Street investirà anche in parte Main Street (ossia dall’ec. Finanziaria all’ec. Reale) attraverso il cosiddetto credit crunch (la fatica delle banche a offrire credito, che si scarica sui soggetti più deboli), e la crescita mondiale potrebbe subire una brusca frenata. Un’altra eredità negativa della crisi sarà a lungo un sentimento anti Mercato dei cittadini. Si invocheranno maggiori controlli e interventi statali, dimenticando che la terapia alla crisi del ’92 fu identificata, correttamente a mio avviso, nelle liberalizzazioni e nelle privatizzazioni.

Che cosa cambierà in meglio?
Speriamo che in seguito alla crisi l’EU si doti di una struttura politica ed economica adatta a fronteggiare sia i momenti neri sia le congiunture favorevoli.

Cosa cambierà per il cittadino italiano?
Difficile a dirsi. Non sappiamo ancora quanti toxic asset siano nelle mani delle banche italiane. Per il resto rimane l’incertezza nei mercati, la minaccia credit crunch e il sentimento anti mercato, che purtroppo in Italia trova sempre terreno fertile.

a cura di Michele Cremonesi
miche.cremonesi@libero.it

Introduzione 34 anno IX numero 1 – ottobre 2008

Lunedì nero

Approfondimento sulla crisi finanziaria

Alzi la mano chi ha capito qualcosa della crisi finanziaria.
Venerdì 19 settembre viene annunciato il piano Paulson per contenere la crisi: un piano dal valore stimato in 700 miliardi di dollari, a cui vanno sommati gli interventi già attuati nei giorni precedenti. Un’immensità di denaro!
In pochi giorni molti istituti finanziari “storici” come Merryl Linch o il colosso delle assicurazioni Aig chiudono o sono salvati in extremis: un vero cambiamento epocale.
I telegiornali mostrano immagini sinistre, di giovani impiegati Lehman Brothers con il volto teso e lo scatolone in mano mentre proliferano le analisi sulle colonne dei quotidiani.
Si cita il ’29, si tracciano paragoni e differenze, si parla di G.W. Bush e del suo mandato in scadenza, di Barack Obama e delle nuove priorità per le elezioni. Si parla di subprime, di cartolarizzazione, di formula Black- Scholes, di lotta allo short selling, di wall street e main street.
Ma cosa significa tutto questo? Come fare a trovare il filo d’Arianna in questa massa di analisi e dati? Come farsi un’opinione senza rimanere schiacciati?
Con questo numero di 34 cercheremo di rispondere in parte al problema. Un piccolo approfondimento per capire come mai si è arrivati alla crisi e se saremo in grado di resisterle.

La Redazione

Saturday, March 7, 2009

Copertina 34 anno IX numero 1 – ottobre 2008